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La legislazione sociale

La legislazione sociale

di Luigi Fabbri
tratto da: “L’organizzazione operaia e l’anarchia

Ma, ci obiettano i nostri avversari e i socialisti riformisti, se voi vi ponete del tutto al di fuori dell’ambiente legislativo e politico, come farete a ottenere dal governo quelle leggi che sono indispensabili a sanzionare le conquiste parziali dei lavoratori e a renderle intangibili?

Questa domanda presuppone tutta una teorica positiva sulla legge, che gli anarchici, e così pure i sindacalisti, negano completamente.

Noi dobbiamo aver cura di conquistarci la simpatia dei lavoratori, ma non dobbiamo però, solo per timore di una momentanea sfiducia, renderci incoerenti con tutto il nostro programma, giacché tale, in apparenza, innocua dedizione è il male più grande che da noi si possa fare agli operai. Permettere infatti che la massa operaia continui ad illudersi col giocattolo della legislazione del lavoro è la stessa cosa che continuar noi alla nostra volta la deleteria educazione del popolo ad aver fiducia nella legge, ciò che al compagno meno intelligente apparisce come la più enorme incoerenza con l’ideale anarchico, cui ripugna assolutamente qualunque concezione legislativa.

Eppoi, se gli anarchici cominciassero a desiderare e dare importanza alle cosiddette leggi in favore degli operai, se credessero sul serio alla loro importanza, che cosa avverrebbe? Che i socialisti legalitari avrebbero ragione in parte di rimproverarci perché non vogliamo contribuire a fare queste leggi per mezzo delle elezioni. E così si scivolerebbe, senza accorgersene, daccapo nel più antipatico opportunismo.

Certo, quando i deputati socialisti con un po’ di chiasso riuscissero a far prendere in considerazione dal governo una legge sul lavoro — supponiamo una legge che garantisse ai lavoratori le otto oro di lavoro — potrebbe sembrar strano che noi socialisti anarchici, che senza alcun interesse siamo del popolo amici sinceri, si fosse contrari a che il popolo si agitasse per ottenere l’approvazione di una tal legge.

Ma ciò non sembrerà più strano ad alcuno quando tutti avran compreso il concetto che ci guida in tale atteggiamento; poiché molto diversa è l’opinione che noi abbiamo della legge in se stessa, da l’opinione che ne hanno tutti gli altri partiti autoritari.

Mentre gli altri credono che i cattivi effetti di una legge derivino dal fatto che questa legge è buona o cattiva, noi invece siamo certi che la legge, essendo sempre per la sua stessa essenza e per il fatto stesso che è una legge, cattiva, tutti cattivi ne sono gli effetti, tutte pessime ne sono le conseguenze.

In ogni modo sta in fatto che mai nessun vantaggio hanno potuto i vinti ricavare dalle leggi fatte per comodo delle classi privilegiate, se non quando questi vantaggi i lavoratori han saputo conquistarseli senza l’aiuto della legge, colla propria energia, caso questo in cui la legge, non essendo forse nociva, è nonostante del tutto inutile.

I nostri avversari invece credono che basti far approvare dal governo una legge a favore degli operai perché gli operai nel caso contemplato dalla legge stessa possano essere sicuri di se stessi e del proprio diritto.

Ecco l’errore: i lavoratori, fidenti nella legge e nei carabinieri che la porranno in esecuzione in loro favore, non si curano d’imporre da se stessi, con la forza di volontà, ai padroni l’osservanza dei diritti che loro spettano, e danno così ai padroni agio di eludere la legge suddetta (giacché per essi e per tale reato, il più orribile, non vi sono manette) e di fare proprio l’opposto che il bene voluto dal legislatore. Mentre invece, se i lavoratori volessero, anche senza nessuna legge, potrebbero costringere i padroni a concedere sul serio tutto ciò che loro bisognasse; e in tal caso, di fronte ad una massa cosciente dei propri diritti e risoluta a difenderli, i padroni davvero non saprebbero come eludere la volontà e le pretese degli operai, ben più positive e ben più difficili a sfuggire che gli articoli di un intero codice sul lavoro.

Per esempio, immaginato che una legge dello stato garantisca agli operai le otto ore di lavoro quotidiano. Se gli operai non sono forti abbastanza, i padroni di fronte a questa legge troveranno il modo di eluderla, facendo sì che i lavoranti volontariamente (e cioè per non essere licenziati o per guadagnare di più) lavorino più di otto ore.

Viceversa, poi, se gli operai sono energici e vogliono sul serio lavorare solo otto ore al giorno, non occorre che facciano la doppia fatica di volere prima la legge e di pretenderne poi l’osservanza o il diritto che ne deriva; basta che sieno energici davvero, e senza intermediari di sorta impongano in principio ai padroni le condizioni loro più convenienti. Del resto la verità è che, se la società vive e progredisce lo fa non mediante la legge, ma malgrado la legge; la quale trova la sua ragione d’essere soltanto nella falsa organizzazione sociale odierna, basata sulla lotta, sullo sfruttamento, e sulla violenza dell’uomo contro l’uomo.

Nessun passo l’umanità ha fatto, anche minimo, verso il suo miglioramento senza che una legge che lo impediva sia stata dovuta infrangere, senza che un’altra legge poi abbia cercato diminuirne i buoni risultati sanzionando a suo modo il fatto compiuto. La storia ci insegna che, ogni volta che i popoli hanno infranto col proprio sforzo diretto un privilegio ed una istituzione, ci sono stati sempre i furbi, che prima erano oppressori o amici degli oppressori, i quali, profittando di quella certa calma che succede alle agitazioni più intense, con la scusa di consolidare la vittoria del popolo l’hanno tradotta in tanti articoli di legge. Sono essi questi eroi della sesta giornata, che allora si dan da fare e arruffano le cose in modo, con la pretesa di metterle in ordine e condurle ragionevolmente, che dopo un po’ di tempo la conquista popolare è ridotta ai minimi termini e non si riconosce più.

Il popolo conquista la libertà; i politicanti con l’aria di crearle delle garanzie durevoli la assottigliano legalizzandola. «La stampa è libera, ma c’è una legge per reprimere gli abusi» dice lo Statuto; intanto se noi qui ci azzardassimo a scrivere non frasi retoriche ma qualche verità delle più scottanti sulle istituzioni politiche d’Italia, il procuratore del re ci sequestrerebbe, e noi andremmo in galera. Così, secondo la legge, dire la verità diviene un abuso condannabile.

Eppure per una illusione ottica di cui tutti, tranne che gli anarchici, son vittime, si attribuisce sempre alla legge il merito di un progresso che essa invece ha limitato e ridotto. Ed è per questo che i più ogni volta che si trovano di fronte a una ingiustizia dicono subito che per combatterla ci vuole «una buona legge», invece di mettersi essi stessi ad abbattere quell’ingiustizia direttamente. Di questa illusione ottica tutti gli aspiranti al potere, in buona o mala fede, dal clericale al socialista, profittano per guadagnarsi l’appoggio del popolo. «Dateci il potere — essi dicono — e noi allora faremo delle buone leggi per farvi star meglio». Come se il voto di un parlamento avesse il potere di cambiare le condizioni politiche, economiche e morali di tutta la società!

La legge è venuta sempre dopo il fatto, e, lo ripetiamo, per diminuirlo. Essa poi, se lo precedesse, non solo sarebbe inutile perché mancante d’un substrato positivo, ma riuscirebbe anche allora dannosa, perché gli interessati cullandosi nella fiducia della legge si lascerebbero vincere dall’inerzia e non otterrebbero mai in fatto ciò che avessero ottenuto in diritto. Ricordiamo che in Francia, quando Napoleone III, spaventato dal sorgere dell’Internazionale, volle prevenirne gli scopi facendo approvare qualche leggina sul lavoro, questa rimase lettera morta, perché gli operai non furono essi a strapparla e non se ne curarono; e quindi i padroni furono lieti di non curarsene neppur essi. Del resto, anche in Italia non abbiamo visto e non vediamo scempiamente delusa la legge, in apparenza discreta, sugli infortuni del lavoro e sul lavoro delle donne e dei fanciulli, e il governo non curarsi affatto di farla osservare o esserne impotente?

Ricordiamo a tal proposito un altro esempio.

Negli Stati Uniti tempo addietro molti operai minatori con uno sciopero formidabile ottennero l’abolizione d’un abuso padronale; e il movimento fu così energico che se ne occupò il Parlamento di Washington, il quale diede ragione agli scioperanti, e fece una legge per sanzionare la loro vittoria. Manco a farlo apposta, dopo poco tempo, malgrado la legge, l’abuso ricominciò e continuò per un pezzo senza che gli operai se ne occupassero, fidenti che esso sarebbe stato combattuto e punito dai gendarmi e dai tribunali. Se vollero che quell’abuso cessasse daccapo dovettero ricorrere a un nuovo sciopero, come se la legge non ci fosse. Cioè, ignoriamo — ma la cosa è molto probabile — se la legge, inutile contro i padroni, abbia servito a legittimare invece durante lo sciopero le violenze dei gendarmi contro gli scioperanti. La storia delle repressioni repubblicane dai fatti di Chicago a quelli ultimi di Parigi ce ne dice qualche cosa.

Insomma la legge è fatta e applicata sempre nell’interesse delle classi e delle caste dominanti e privilegiate, ed esisterà finché divisioni di classe, di casta, esisteranno fra gli uomini; e queste divisioni essa contribuisce a mantenere essendo perciò di esse volta a volta causa ed effetto.

In un pregevolissimo studio critico sulla storia della Rivoluzione Francese il nostro compagno Pietro Kropotkine dice qual è la ragione del perpetuarsi anche fra gli studiosi di questa illusione, la quale fa attribuire alla legge ed ai legislatori il merito dei progressi ottenuti invece soltanto dall’iniziativa popolare, i quali dalla legislazione venuta molto dopo sono stati al contrario diminuiti. La ragione è questa, che fino ad oggi gli storici nei raccontare le vicende dell’umanità hanno trascurato quasi sempre l’opera paziente, evolutiva o rivoluzionaria, delle masse, e si sono preoccupati soltanto di ciò che han fatto i re, i sacerdoti, i capi, i parlamenti, ecc. Così si dice che il Parlamento francese decretò nel 1793 la repubblica; ma si tace molto volentieri che la monarchia l’aveva abbattuta il popolo con una serie ininterrotta di insurrezioni cominciate molto prima della presa della Bastiglia; si tace che mentre il popolo inneggiava alla repubblica, in parlamento i deputati e lo stesso Robespierre si dicevano monarchici e dichiaravano la repubblica un assurdo. Si tace che quando l’Assemblea Nazionale abolì per legge i privilegi, i privilegi non esistevano più, distrutti dalla furia popolare; la legge contribuì, all’opposto a richiamarne in vigore qualcuno, e a crearne dei nuovi poco meno obbrobriosi dei vecchi. Si tace (per venire a tempi più vicini a noi) che se Carlo Alberto concesse lo Statuto, il popolo queste libertà statutarie se l’era già conquistate col movimento rivoluzionario; in fondo gli si cedeva a mala voglia ciò che lui s’era già pigliato, e la formalità legale della concessione non servì che a limitare quanto più fu possibile la conquista popolare.

Questa è storia; e se la storia è maestra della vita, i lavoratori debbono trarre ammaestramento da essa, piuttosto che dalle chiacchiere dei politicanti.

L’organizzazione operaia, dunque, deve disinteressarsi dell’opera dei parlamenti; e se anche certe volte l’opera di questi fosse per pregiudicare la causa operaia, allora il proletariato organizzato deve dal di fuori, con l’agitazione popolare diretta, imporsi perchè in parlamento come in tutti gli ambienti di governo non si faccia opera deleteria alla causa operaia. Non è lontano il tempo in cui i sommovimenti popolari e gli scioperi e l’organizzazione operaia han costretto in Italia e altrove i varii governi a rallentare i freni della reazione, e a prendere quei provvedimenti in pro’ delle folle che invano per anni ed anni erano stati richiesti dai deputati in parlamento.

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